Il giovane Kosovo tra ferite e rinascita
Il filone balcanico dei nostri reportage riprende dal Kosovo. La Macedonia, oggetto delle dei reportage di gennaio, funge questa volta soltanto da rampa di lancio verso le adiacenti – e ancor meno conosciute – repubbliche ex jugoslave, e non solo…
Peć (Kosovo), 27 marzo
Da Skopje, il confine con il Kosovo dista soltanto una ventina di chilometri. Difficile come sempre prevedere la durata dei controlli di confine, che questa volta per fortuna si rivelano piuttosto snelli. Oltre la frontiera, la strada resta stretta e tortuosa in mezzo a colline molto balcaniche, lungo i cinquanta chilometri che mancano per giungere alla capitale Priština. C’è poco da fare: da quando l’Europa dell’Est si è spezzettata in tanti stati piccolini, il concetto di capitale ne ha inevitabilmente risentito… Così, la cosa più solenne che traspare dal rapido giro della città è la statua dedicata a Bill Clinton, che tanta parte ebbe nel processo di indipendenza (non ancora da tutti riconosciuta) del Kosovo; e che poco ha da scaramanticamente lamentarsi del fatto che gli si dedichino statue e altro mentre è ancora vivo, visto che l’hanno fatto anche nella sua Little Rock.
Succede ancora per il Vietnam, normale quindi che succeda per il Kosovo. Nei paesi associati al concetto di guerra, l’associazione dura bel al di là della guerra stessa. Purtroppo però non del tutto inappropriatamente, ché le onde lunghe di un conflitto vecchio ormai di diciassette anni non sono per nulla estinte. A Prizren, un monaco ortodosso ci guida nella visita di una chiesa distrutta dagli albanesi nel 2004, in quel rigurgito della guerra del 1999 durante il quale incursioni del genere erano all’ordine del giorno. Il monaco – uno dei pochissimi rimasti – parla perfettamente l’italiano: durante il conflitto, viveva a contatto con i nostri militari che proteggevano per l’appunto le istituzioni religiose, e che da queste parti – come già fu in Libano – sono ricordati con maggior piacere rispetto a molti altri contingenti nazionali. Poco più in a passeggiata lungo il fiume Bistrica, con moschea in fondo a destra e alte colline sullo sfondo, ricorda incredibilmente un analogo angolo di Sarajevo. Geografia e storie di guerra, nei balcani, si rincorrono sin troppo vorticosamente.
Poco fuori da Prizren, ciò che resta del Monastero dei ss. Arcangeli. Due pastori tedeschi, maschio e femmina, si rincorrono e giocano in mezzo ai mozziconi di muri, mentre un novizio racconta una storia già nota. Diversa da quella che ascoltiamo a Decar: “Nessuna distruzione in sette secoli: è un miracolo, qui”. Il ricordo corre così anche alle guerre dei secoli passati, mentre gli echi del passato recente sono qui meno estinti che mai. La strada per giungere al monastero è ancora disseminata di ostacoli in stile campo minato; un autoblindo troneggia ai lati del viale d’accesso; la biglietteria è camuffata come una casamatta. Nel ruolo di bigliettai, due militari sloveni, mentre due loro colleghi austriaci fanno la ronda nel cortile che separa gli alloggi dei monaci dalla chiesa. La sigla KFOR campeggia ancora, enorme, su tutto ciò. Tra serbi e albanesi, tensione e diffidenza sono latenti ma corpose.
Nella sede storica del patriarcato ortodosso di Serbia, la mattina di Pasqua inizia a nevicare. Pasqua soltanto per noi: gli ortodossi hanno notoriamente un altro calendario. Una giovane suora distribuisce audioguide, il cortile assume un’aria più che mai claustrale. La parte alta delle montagne che ci circondano inizia a cambiare colore. La tortuosa strada verso il Montenegro si preannuncia tendente al bianco…
Roberto Codebò
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