“Bisogna innamorarsi del proprio lavoro. Si deve dedicare la propria vita a diventare maestri di ciò che si sa fare”, dice così Jiro Ono, il più famoso sushi chef di Tokyo.
Ottantacinque anni e nessuna voglia di andare in pensione, è lui il titolare di Sukiyabashi Jiro, un ristorante con appena dieci coperti e il bagno esterno -ma ben tre stelle Michelin– dove lavora assieme al figlio maggiore Yoshikazu che lui stesso ha duramente addestrato a diventare un vero shokunin, un maestro nell’arte del preparare il cibo simbolo del Giappone.
Il regista David Gelb ha deciso di raccontare la vita di Jiro nel suo primo lungometraggio Jiro e l’arte del sushi.
Jirō Ono ha 85 anni, è nato nel Giappone rurale dell’inizio del 900 e fin da bambino ha dovuto arrangiarsi in ogni modo per sopravvivere: non sorprende che la saggezza non gli manchi. Tenace e intransigente prima di tutto con se stesso, Jiro in 70 anni di lavoro ha raffinato a tal punto l’arte di preparare il sushi da meritarsi la massima onorificenza Michelin.
Ha una personalità molto forte e una dedizione al lavoro mai vista prima: per lui non esistono vacanze o festività e non per costrizione di qualcuno ma per volontà. Jiro all’età di 85 anni (ora ne ha 91!) dichiarava ancora: “tutto ciò che voglio è fare un sushi migliore”. Fino ai suoi 70 anni si occupava personalmente, ogni giorno, di andare al mercato ittico di Tokyo per scegliere personalmente il miglior pesce da servire. Ora però, dopo un attacco di cuore proprio mentre si trovava al mercato, il delicato compito è affidato al figlio maggiore. Tutte le mattine si reca al mercato, ma qualche venditore ci ha svelato un piccolo segreto: il miglior pesce pescato ogni giorno viene conservato proprio per Jirō.
Per Jiro il sushi è una religione, una sinfonia, una battaglia per raggiungere la perfezione attraverso la ripetitività dei gesti e l’equilibrio dei sapori.
Tre stelle Michelin assegnate al suo ristorante nonostante il locale abbia solo 10 coperti e il bagno sia fuori, e nonostante un pasto si consumi in 15-30 minuti al massimo. Il menù infatti prevede solo ed esclusivamente 20 pezzi di sushi. Niente tempura, niente zuppe, né alcun tipo di antipasto. Eppure, per trovare posto, c’è una lista di attesa di oltre un mese, nonostante il prezzo di un pranzo o di una cena parta da 30 mila yen, più o meno 250 euro.
Evidentemente, come per ogni stellato Michelin, quello che si assapora lì non è solo cibo ma una vera e propria esperienza, che nel caso di Jiro ha anche qualcosa di vagamente teatrale, pur nella sua semplicità. Lo chef giapponese, o lo shokunin – il maestro artigiano, come si definisce lui -, prepara ogni pezzo di sushi davanti ai clienti seduti in fila al bancone di fronte a lui. Le sue mani compiono gesti piccoli ed eleganti, una sorta di danza ipnotica che sembra ripetersi all’infinito e che incanta. Mette anche un po’ a disagio, perché si è costretti a mangiare sotto il suo sguardo severo e indagatore, da vero maestro di cerimonia.
Essere uno shokunin non si esaurisce nelle capacità tecniche ma va oltre. È un atteggiamento, un modo di essere e un modo di vivere la propria professione. È migliorare il proprio prodotto e migliorarsi ogni giorno di più, è dedizione completa al proprio lavoro e ripetere giornalmente le stesse azioni ma non mancare mai di creatività. Ecco perché ogni giorno al Sukiyabashi Jiro sarà diverso.
Gli apprendisti iniziano strizzando delle salviette umide bollenti che verranno poi messe a disposizione dei clienti. Dopo anni e anni di preparazione possono approcciarsi alla cucina iniziando a ‘massaggiare’ il polpo, attività che richiede almeno 40 minuti per renderlo morbido. Infine, dopo 10 anni, hanno il permesso di cucinare le uova! Chi resiste all’apprendistato impara la disciplina e la dedizione al lavoro. Lo chef continua a ripetere con la determinazione di un samurai che sono l’intransigenza e l’aspirazione a migliorare che rendono un uomo un leader.
Il film di Gelb è anche un tuffo nelle tradizioni familiari del Giappone. Cuore dell’opera è l’influenza che l’ambizione di Jiro ha avuto sulle vite dei suoi figli. Yoshikazu non riesce a raggiungere il suo pieno potenziale, ciononostante è fiero di imparare da un autentico maestro del sushi; suo fratello di minore Takashi –che in quanto secondogenito non può aspirare alla gestione del ristorante paterno- ha aperto un’attività tutta sua, nella consapevolezza che vivrà sempre di luce riflessa.
Il sushi, una pietanza così strutturalmente semplice, diventa sintesi per fetta di un modo di vivere che lega in maniera armoniosa più dimensioni esistenziali, nell’oscillazione di un ferreo dualismo di stampo spiccatamente orientale: il pesce e il riso.
Sono questi gli unici due ingredienti di un piatto apparentemente povero, eppure così denso di implicazioni perché non è sotto la lente della specificità che tali elementi vanno visti, bensì nell’ambito della loro indissolubile unione. Gelb costruisce un discorso di rara efficacia, la cui forma emana una bellezza quasi estatica, sorretto da una colonna sonora in cui convergono Cajkovskij, Mozart, Bach, Richter, ma soprattutto Philip Glass.
Perché è la massima semplicità che conduce alla purezza.
Qui il trailer del documentario:
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