Home » L’arte di annacarsi – Un viaggio in Sicilia di Roberto Alajmo
Un misto di storia e di presente, di cultura e paesaggio, di coerenze e incoerenze.
“L’arte di annacarsi – Un viaggio in Sicilia” di Roberto Alajmo è un viaggio approfondito da un capo all’altro della Sicilia. Una regione sospesa tra riti religiosi e pagani, tra paesaggi stravolti e bellissimi, che trova nelle sue incoerenze la sua coerenza.
Con una voce forte, dotata al contempo di uno strano cinismo, l’autore ci conduce dai posti meno noti ai più noti, partendo da Marsala e concludendo a Messina. Alajmo sfata luoghi comuni e ne costruisce di nuovi, ci prende per mano e ci mostra bellezze e mostruosità, con un sottofondo di storia mista a mitologia e contemporaneità.
Un viaggio che si tramuta in racconto ironico e sferzante, ma che – in fin dei conti – ha sullo sfondo l’amore per questa terra: “un amore che si prova per una canaglia. Tu sai che è una canaglia, ma non puoi farci niente”.
La prima domanda che il lettore (non siciliano) deve necessariamente porsi nell’affrontarne la lettura, è la seguente: cosa significa annacarsi?
Annacare/annacarsi è un verbo insidioso, difficilmente traducibile in italiano. Quel che più si avvicina è cullare/cullarsi, infatti, annacarsi viene da “naca”, che è la culla del neonato che pencola lentamente. Ma non è proprio la stessa cosa.
In verità, la risposta si trova già sul retro del libro:
“Annacare/annacarsi = affrettarsi e tergiversare, allo stesso tempo. Un verbo intraducibile che significa una cosa e il suo contrario. Il massimo del movimento col minimo di spostamento”.
Sembrerà assurdo a chi crede che la lingua sia un perfetto assioma e che le parole debbano avere un senso (e uno soltanto), che in una locuzione coesistano due significati tanto opposti quanto in “annacarsi”. Andare, ma anche restare. Volere. Ma anche non volere. Non avere tempo. Ma anche averlo, allungarlo, impigrirlo. Vivere, in sostanza. Ma anche morire.
Titolo perfetto per rappresentare la contraddittorietà di questa terra. In Sicilia c’è il massimo del bello e il massimo del degrado. Il massimo della cordialità ciarliera e il massimo dell’omertosità e “riservatezza”. Tutto e il contrario di tutto.
Un esempio calzante dell’arte di annacarsi – lo evidenzia lo stesso autore – è fornito nell’ambito delle feste religiose. Madonne e Santi vengono portati in processione con un andamento danzante, ondeggiante, non necessariamente (e comunque non solo) in avanti, ma spesso di lato e senza disdegnare piccole retromarce.
«Pur restando immobile, l’Isola si muove. Non è uno di quei posti dove si va a cercare la conferma delle proprie conoscenze. È invece un teatro dove le cose succedono da un momento all’altro. È un susseguirsi di scatti prolungati, pause per rifiatare e ancora fughe in avanti.»
«I siciliani hanno la tendenza diventare apprensivi, quando devono rendere conto agli estranei di sé e della propria terra. Sanno che devono misurarsi con una quantità di luoghi comuni che vanno dalla mafia allo scirocco, e molto altro ancora. Come se non bastasse, ci sono pure i luoghi comuni posticci.»
Così recita Alajmo nella premessa in cui letteralmente mette “le mani avanti”. L’autore rintraccia l’origine dei luoghi comuni che tanto hanno circondato la Sicilia, non tanto per sfatarli, ma per dissacrarli con cinico piacere.
È un esempio la famosissima cassata siciliana, ritenuta da sempre il dolce simbolo della Sicilia. In realtà nasce come rimedio di un testardo rivenditore di frutta candita. Tale Gulì, alla fine dell’Ottocento decise di «imbaroccare» la tipica cassata al forno (questo sì un dolce di origini molto più antiche, fatto con pastafrolla ripiena di ricotta e cioccolato) per liberarsi delle decine di chili di zuccata e mandarini canditi invenduti. E ne fece dono alla famiglia Florio, che a Palermo ospitava l’aristocrazia di tutta Europa e che si rivelò ben presto un formidabile quanto involontario veicolo promozionale.
O ancora il famoso carretto siciliano o il ficodindia che contraddistingue ovunque il paesaggio siciliano. O il più noto di tutti: la mafia.
Facendo crollare le certezze di ogni buon turista che approdando qui in cerca di fichi d’india, carretti siciliani, coppole e lupare, più di ogni altra cosa sarà segnato dalla luce e dall’ombra, dalle colature dei tramonti. Dagli scenari di certe città che si aprono come un sipario (Noto) e si svuotano di notte per non vivere che lontano dalle quinte. Che si parano a festa in sontuosi abiti da processione (Trapani), allungando il Venerdì Santo per tutto l’anno. O che edificano stadi del ghiaccio (Catania) a un passo dall’Etna che bolle.
Il viaggio parte da Marsala e Calatafimi, per poi proseguire verso Palermo la vera capitale di quella particolarissima arte che dà il titolo al libro: annacarsi. Chi visita Palermo resta impressionato dai cantieri aperti, sembra, appunto, una città in continua evoluzione. In realtà è tutto fermo. Non sono cantieri, sono transennamenti: «la discriminante tra i due generi è fondamentale e consiste nella presenza o meno di operai a lavoro». Un’eterna temporaneità, anche questo è annacarsi.
Poi c’è Ustica, che a volte scompare alla vista, Lampedusa, dove invece scompaiono i migranti e Mazara del Vallo, con il suo mescolamento di cittadinanze, le stazioni radio tunisine e i ristoranti, dove «il cuscus ha la stessa dignità degli spaghetti, se non maggiore». Nel trapanese «i pescherecci sono tutti dei laboratori etnici esemplari» e se il cuoco a bordo è italiano viene invitato a rispettare le inibizioni alimentari di cristiani e musulmani. Il cuscus, festeggiato ogni anno a San Vito Lo Capo, d’altro canto è il cibo della convivialità: «incocciare è il verso che indica la preparazione della semola, e incocciarsi è il termine che in siciliano sta ad indicare l’incontro casuale».
E il viaggio continua con tappe che ci spiegano i tanti volti di questa terra, anche i meno scontati, come l’inspiegabile paura del mare che hanno tanti isolani. Da Realmonte, a Favignana, Selinunte e Segesta, con il suo teatro, la passione per le tragedie e la maledizione del «tragediare», un’epressione dialettale che indica, in senso dispregiativo, la tendenza a drammatizzare ogni cosa.
Ma per capire le contraddizioni della Sicilia basta recarsi ad Agrigento dove si possono osservare i templi riempendosi gli occhi di grecità e poi, solo ruotando su se stessi di 180 gradi, soffrire alla vista di tutto quello che è stato costruito dopo. E poi Pantelleria, Gibellina, Noto, Avola, Siracusa, Scicli, Tindari, tutte con i loro miti e la loro storia, quasi sempre sconosciuta ai più. Con le loro madonne, le loro superstizioni.
Infine si attraversa Catania e il suo provincialismo, il bellissimo inferno delle Gole dell’Alcantara. E finalmente le Eolie, isole che non amano il mare, dove gli abitanti non vivono di pesca ma dei loro orti e del «pane caliato, duro con cui accompagnano le insalate».
Il viaggio prosegue con alcuni posti meno noti, dove bisogna veramente volerci andare, come Mozia, con la sua opera scultorea che è la più bella della Sicilia. Dopo Mineo e Cefalù un intermezzo sul vino siciliano, percorso tortuoso per un finale di successo. La maledizione di Omero, l’esaltazione di Plinio il Vecchio, una storia gustosa, raccontata con amara ironia.
La storia di una regione che ha quasi sempre prodotto più che consumato, dal respiro corto, dalla politica dell’uovo oggi. Le cantine storiche dell’Ottocento, la piaga della fillossera e poi la rinascita con le nuove generazioni. Meno quantità più qualità: praticamente una rivoluzione culturale. Il vino è riuscito a contrastare l’anatema di Leonardo Sciascia che sosteneva che i siciliani non credono alle idee: in questo caso le idee sono riuscite addirittura a produrre reddito.
Il viaggio di Alajmo si chiude con il suggerimento delle via di fuga dal turismo agostano di Taormina, con la passione per la siesta di Erice e della cioccolata di Modica.
«Si viaggia certe volte con l’intento di essere confermati nelle idee ricevute da altri. Oppure si viaggia per approfondire un viaggio precedente. E però capita pure un’altra cosa: di certi posti non ci si sazia mai. Ci si alza dalla tavola imbandita prima di essersi saziati del tutto, tenendo da parte un po’ di fame per la volta successiva. Oltretutto saziarsi di Sicilia è rischioso; significa un po’ pure sdegnarsene.»
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