Era il 2003 quando Lost In Translation (in Italia arrivato con il fuorviante sottotitolo L’amore tradotto), di Sofia Coppola, arrivava nei cinema. Lost in Translation diventa subito un cult e rilancia la carriera di Bill Murray che si guadagna una nomination agli Oscar, e che ha anche il merito di aver trasformato un’ancora diciannovenne Scarlett Johansson in una star.
Lost in Translation è un film introspettivo e profondo, privo però di quelle risposte che stiamo sempre a cercare affannosamente.
Un film in cui l’incertezza è protagonista: Bob (Bill Murray) un tempo attore di successo, con l’età che avanza si trova relegato a futili spot televisivi, che se da un lato gli consentono di mantenere la sua notorietà, interiormente sortiscono l’effetto contrario, accompagnandolo verso un punto di non ritorno che non è pronto ad accettare. Durante un viaggio di lavoro a Tokyo per una campagna pubblicitaria, l’uomo incontra la giovane e bellissima Charlotte (Scarlett Johansson), una donna che vive un’ansia opposta ma altrettanto pressante. Neo-laureata in filosofia, Charlotte si trova a Tokyo per accompagnare il marito fotografo (Giovanni Ribisi) in attesa di decifrare quello che vuole fare nella vita, ma la solitudine quotidiana, imposta dagli impegni pressanti del compagno, la rende irrequieta e insoddisfatta.
L’incontro fra queste due anime perse nel bar dell’hotel darà vita a un desiderio di fuga, mettendo entrambi al cospetto delle proprie emozioni e contraddizioni più profonde.
La scelta del titolo Lost in Translation sottolinea alla perfezione il profondo senso di provato dai protagonisti: persi per le strade di una Tokyo ospitale ma asettica, in cui tutti parlano una lingua sconosciuta e faticano a comprendere la loro. Una sensazione si smarrimento che finisce per portarli a mettere in discussione le reciproche vite e a pensare di poter essere una rassicurante alternativa l’uno per l’altra. Ma la vita vera è altrove ed è troppo facile pensare che quel casuale incontro possa diventare un’ancora di salvezza per entrambi.
Nessun bacio appassionato. Nessuna notte d’amore che apre a un futuro insieme. Il significato più profondo di Lost in sta proprio nel suo spirito anti-romantico, che vede Bob e Charlotte scegliere la via della rinuncia, non per paura o vigliaccheria ma per pura consapevolezza che l’alternativa sarebbe sbagliata.
Quando si pensa alla Tokyo dipinta nel cinema, si pensa subito a Lost in Translation.
Un viaggio in cui lo spettatore si perde insieme ai protagonisti mentre questi si innamorano l’uno dell’altra visitando un mondo nuovo, distante dal proprio quotidiano. Tutti gli affascianti contrasti della capitale nipponica vengono catturati dalla regista che contrappone abilmente l’euforia della metropoli alla solennità di altre location visitate dal personaggio da Charlotte.
Il film si apre sulla finestra di una camera del Park Hyatt, in cima alla Shinjuku Tower. Un hotel a cinque stelle dove una camera può costare oltre i quattrocento euro a notte. E’ proprio da lì che Scarlett Johansson osserva Tokyo nella scena iniziale. Ed è in quella struttura, esattamente al cinquantaduesimo piano, che si trova anche il New York Bar: una delle location più romantiche della città ed il posto in cui i personaggi di Bob e Charlotte si incontrano per la prima volta, con una vista mozzafiato di Tokyo illuminata. Qui i due parlano, ma spesso non dicono nulla capendosi anche solo con uno sguardo. In questo modo si contrappone abilmente l’intesa dei due protagonisti con le difficoltà di comunicazione che incontrano ogni giorno con il popolo giapponese.
TOKYO, JAPAN – DECEMBER 23, 2012: Pedestrians cross at Shibuya Crossing. It is one of the world’s most famous scramble crosswalks.
Una volta lasciata la torre, Charlott e Bob si tuffano nella magia della città: il quartiere a luci rosse di Kabukicho, un regno fatto di luci al neon, e ovviamente Shibuya Station e uno degli incroci più famosi del mondo. Una strada che accoglie ogni giorno milioni di pedoni, in cui ci si può tuffare tra la folla e farsi fotografare su quelle strisce pedonali, oppure “fuggire” ai piano alti dell’edificio Q-Front per rimanere ipnotizzati ad osservare dall’alto l’oceano di persone che lo attraversano.
Alle spalle di quest’area si trova il Karaoke Kan, location di una delle sequenze più indimenticabili del film: quella in cui Scarlett Johansson canta Brass in Pockets dei Pretenders e Murray invece prova a intonare More than This di Bryan Ferry (la troupe ha girato quelle scene nelle stanze 601 e 602 del Karaoke Kan). La scena in cui Bob e Charlotte si ritrovano a cucinarsi da soli il loro cibo, invece, è girata al ristorante Shabuzen del Creston Hotel, ristorante specializzato nello shabu shabu.
Per chi ricerca invece la parte “zen” del film, basta dirigersi fino alla stazione Nekano-sakaue, dove troverà il Joganji, un piccolo tempio che Charlotte visita all’inizio del film. Oppure salire sul bullet train per Kyoto dove Charlotte visita l’altare Heian Jingu e i tempi di Nanzenji e Chion-in.
Dotato di una splendida colonna sonora e una fotografia contemporanea, Lost in Translation resta comunque una gemma nel panorama attuale del cinema americano. Un film bellissimo e profondamente umano che ci insegna che le risposte non sono tutto.
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